Quanti sono i musicisti emergenti che hanno come meta la firma di un contratto discografico? Oggi sembra piuttosto facile, ma la realtà non è tutta rose e fiori: il mercato discografico è quello di sempre, un campo minato ricco di insidie che richiede all’artista una giusta cautela, ovvero il saper compiere i passi giusti al momento giusto. Il rischio è quello di utilizzare male un’occasione e magari di buttar via un buon pezzo.
Prima di potersi proporre sul mercato, un artista o una band devono avere un’idea molto chiara del pubblico al quale si rivolgono. I tempi in cui una produzione discografica poteva essere il mezzo per esplorare il mercato e trovare i propri fan sono finiti, questa è la realtà. Oggi, prima di ogni cosa, è necessario avere già un pubblico di riferimento per poter investire cifre importanti in una produzione discografica. Non sto parlando solo della registrazione dell’album, ma anche e soprattutto del marketing che andrà ad accompagnare il disco, packaging compreso.
Come accennavo, non sempre è stato così. Un tempo gli artisti venivano coltivati dai manager delle etichette, venivano seguiti e fatti crescere con le opportune strategie.
Negli anni ’60 o ’70, ad esempio, una produzione sceglieva un artista con l’obiettivo di aiutarlo a raggiungere una sua dimensione artistica e una chiara identità musicale tramite il suo suono, i suoi testi e il suo pubblico. Solo dopo aver raggiunto questo obiettivo l’artista era pronto per la commercializzazione della sua musica e per un più ampio successo di pubblico. Una volta identificato il mercato tramite i potenti mezzi di una casa di produzione, l’artista ormai professionalmente maturo poteva ampliare e solidificare la propria audience. Questo significava anche avere l’opportunità di lavorare in stretta collaborazione artistica e personale con professionisti di alto livello, un’esperienza che poteva permettere di raggiungere livelli tecnico e artistici elevatissimi, se si era un bravo musicista.
Nell’epoca dello streaming le cose sono cambiate, per non dire invertite. Oggi un’etichetta discografica non investe su un artista perché ha potenzialità di successo, ma investe su un artista perché ha già una sua fanbase e ha la possibilità immediata di monetizzare il suo successo. Se prima si trattava di investire su un potenziale, ora si tratta di partecipare al profitto di un capitale umano pronto a portare frutti.
Questo comporta che un artista o una band, se vogliono diventare appetibili per un investimento, devono già possedere un seguito, di pubblico ai concerti e/o di followers in rete, ma nel contempo avere anche una chiara identità musicale. E’ un dato di fatto che nella psicologia della produzione moderna un buon investimento è quello che produce reddito dal primo giorno. Costruirsi un proprio pubblico locale, una fanbase solida e affiatata è il primo passo che un musicista deve fare per iniziare il percorso che lo porterà al contratto con un’etichetta discografica.
Per farlo, partire da concerti presso un circolo di quartiere o in un contest tra gruppi emergenti, non è certo un’idea da sottovalutare. Si tratta comunque di trovare i luoghi più adatti per costruire nel tempo una fanbase fidelizzata, grazie all’interazione e al coinvolgimento diretto e personale tra musicisti e pubblico.
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