In un recente articolo apparso su Rolling Stone dal titolo Lo dicono i numeri: lo streaming funziona solo per 1% degli artisti. La giornalista Emily Blake lamenta di come app come Spotify, che avrebbero dovuto democratizzare l’ascolto musica, abbiano fallito nel loro compito perché di fatto, solo 1% degli artisti monopolizza il 90% degli stream. Il frutto di una analisi di Alpha Data durata un anno, conferma il monopolio delle grandi produzioni discografiche a danno delle piccole o delle produzioni indipendenti.
Forse non abbiamo avuto una democratizzazione dell’ascolto, ma è certo che la distribuzione della musica in streaming sia oggi il massimo esempio di libertà di espressione artistica. Con queste piattaforme chiunque, e intendo veramente chiunque, con poche decine di euro può rendere disponibili le sue canzoni in ogni angolo del globo: con limiti imposti da filtri tecnici più legati alla qualità del suono che a quella dell’esecuzione o artistici e praticamente con scarsi vincoli di censura; se non è democrazia questa!
In effetti il problema, a mio modesto avviso sta proprio nel chiunque può avere la sua musica in streaming.
Sempre dall’articolo di miss Blake, il CEO di Spotify Daniel Ek ha stimato che ogni giorno vengono caricate sulla piattaforma qualcosa come 40 mila canzoni.
Sono numeri veramente importanti, che però saturano il mercato e molto probabilmente siamo in quella situazione in cui l’offerta di musica è di molto superiore alla richiesta.
La musica distribuita sulle piattaforme di streaming ha favorito il processo di disintermediazione tra artisti ed etichette eliminando il filtro del direttore artistico, cioè la figura che decide se una canzone è degna o meno di essere pubblicata. Nel chiunque può avere la sua musica in streaming ci sono migliaia di produzioni indipendenti, magari di musicisti non professionisti, che oggi possono far conoscere la loro musica al mondo, cosa che gli era negata ai tempi dei supporti digitali.
Aver creduto che nel mondo ci fossero miliardi di ascoltatori curiosi di ascoltare musica nuova e diversa dalle loro abitudini credo sia stata una delle più grosse ingenuità dei nostri tempi. Gli ascoltatori sono per lo più abitudinari e non amano perder tempo alla ricerca di cose nuove, di nuovi orizzonti musicali o nuove praterie sonore. È sempre stato così, sempre così sarà.
Come può allora il musicista professionista far emergere la sua opera in questo caotico oceano di produzioni musicali? È una domanda che ha una risposta semplice: il marketing, in particolare lavorando sul personal branding e poi sul marketing legato alla sua musica, al suo prodotto discografico.
Certo il marketing non può risolvere il problema di un mercato che subisce un eccesso di offerta, ma certo un progetto di marketing ben pianificato e costruito può riuscire a far conoscere l’artista e la sua opera ai fan potenziali.
Ma vedi, le cose stavano così anche prima dello streaming, forse erano anche peggio: quanti sono gli artisti che hanno penato perché continuamente rimbalzati dalle case discografiche? Quante sono le belle canzoni che non hanno avuto un riscontro immediato di pubblico perché non distribuite adeguatamente o sui canali giusti?
Oggi qualsiasi musicista ha la possibilità di confrontarsi direttamente con il pubblico senza filtri e senza intermediazioni. E il pubblico, potenzialmente, ha la possibilità di ascoltare qualsiasi cosa venga prodotta sul nostro pianeta. Non è forse democrazia questa?
Gratificami, offrimi un caffe!
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